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«Ci regalano», corresse Edward. «E poi non è che sia un palazzo da mille e una notte. Insomma, casa è una parola grossa».

«Attento a come parli», mormorai fra i denti.

Alice s’illuminò. «Allora ti piace».

Feci segno di no con la testa.

«Di più?».

Annuii.

«Non vedo l’ora di dirlo a Esme!».

«Perché non è venuta anche lei?».

Il sorriso di Alice svanì per un istante, come se le avessi fatto una domanda imbarazzante. «Oh, be’, lo sanno tutti come la pensi sui regali. Non volevano metterti a disagio».

«Ma era ovvio che mi sarebbe piaciuta. Voglio dire, come potrei non apprezzare una cosa del genere?».

«Saranno felici di saperlo», commentò, dandomi un paio di buffetti sul braccio. «Bene, la cabina armadio trabocca di roba, fanne buon uso. E... direi che è tutto».

«Non vuoi entrare?».

Arretrò di qualche passo, con aria casuale. «Edward sa già tutto. Io... faccio un salto più tardi. Ma chiamami pure, se hai dubbi riguardo all’abbinamento dei vestiti». Mi scoccò prima uno sguardo indeciso e poi un sorriso. «Jazz vuole andare a caccia. Ci vediamo».

E sparì in mezzo agli alberi come un proiettile di velluto.

«Non capisco», commentai dopo che l’eco del suo volo si fu spenta del tutto. «Sono talmente difficile che non hanno avuto il coraggio di accompagnarci? Adesso mi sento in colpa. Non ho nemmeno ringraziato Alice come si deve. Forse dovremmo tornare indietro e dire a Esme...».

«Bella, ti prego. Nessuno pensa che tu sia difficile».

«Allora perché...».

«Volevano lasciarci soli. Fa parte del regalo. Alice ha cercato di dirtelo fra le righe».

«Ah».

Tanto bastò a far scomparire la casa e tutto il resto. Avremmo potuto essere ovunque. Non vedevo più alberi né pietre, nemmeno le stelle. Solo Edward.»

«Vieni, ti mostro cos’hanno fatto», disse, tirandomi per la mano. Non si era accorto della scarica elettrica che si era irradiata nel mio corpo, neanche fosse sangue?

Di nuovo mi sentii stranamente presa in contropiede da me stessa, in attesa di una reazione che il mio corpo non era più in grado di avere. Il mio cuore avrebbe dovuto battere come un maglio sull’incudine, assordante. Avrei dovuto avere il viso in fiamme.

Avrei anche dovuto essere esausta. Era stato il giorno più lungo della mia vita.

Appena mi resi conto che quel giorno sarebbe durato in eterno, mi venne da ridere. Una risatina sommessa, a denti stretti, traumatizzata.

«Ti è venuta in mente una barzelletta divertente? Fai ridere anche me».

«Non proprio», risposi, mentre mi lasciavo condurre verso la porticina ad arco. «Pensavo solo che questo è il primo e l’ultimo giorno di... sempre. Non è un concetto che mi entra in testa tanto facilmente, nonostante tutto lo spazio extra che ho a disposizione adesso». Risi di nuovo.

Edward ridacchiò con me e mi indicò con un gesto ampio la porta, invitandomi a fare gli onori di casa. Infilai la chiave nella serratura e aprii.

«Sei un talento naturale, Bella. Al punto che mi dimentico quanto debba apparirti strano tutto questo. Mi piacerebbe riuscire ad ascoltarti». Allora si piegò sulle ginocchia e mi prese in braccio, così velocemente che non lo vidi nemmeno muoversi... il che era tutto dire.

«Ehi!».

«Portare in braccio la sposa oltre la soglia fa parte dei miei doveri coniugali», mi ricordò. «Ma dimmi a cosa pensi, sono curioso». Spinse la porta, che si aprì con un cigolio quasi impercettibile, ed entrò nel piccolo soggiorno in pietra.

«A tutto», risposi. «E tutto in una volta, non so se hai presente. Alle cose belle, a quelle nuove e a quelle preoccupanti. A un uragano di superlativi nel cervello. In questo preciso momento sto pensando che Esme è un’artista fatta e finita, è tutto così perfetto!».

L’interno della casetta sembrava uscito proprio da un libro illustrato. Il pavimento era un patchwork di pietre levigate dal tempo, il soffitto basso era attraversato da lunghe travi a vista (uno alto come Jacob ci avrebbe sicuramente sbattuto la testa), le pareti erano a sezioni di legno e pietra. Nel caminetto all’angolo ardevano ancora i resti di un lento fuoco tremolante: era legna spiaggiata quella che stava finendo di bruciare e le lingue basse di fuoco erano verdi e azzurre di sale.

L’arredamento era eterogeneo, non un solo pezzo che facesse il paio con un altro, eppure armonioso. Una sedia aveva l’aria vagamente medievale, l’ottomana bassa vicino al camino era in stile moderno, la libreria piena zeppa di fronte alla finestra più lontana mi ricordava i set di certi film italiani. Eppure, per qualche motivo, tutti gli elementi s’incastravano alla perfezione, come pezzi di un gigantesco puzzle tridimensionale. Riconobbi anche alcuni dei quadri appesi alle pareti: i miei preferiti fra quelli della grande casa. Tutti originali di valore incalcolabile, senza dubbio, eppure s’intonavano perfettamente all’ambiente, proprio come il resto.

Era uno di quei posti che ti fanno credere nella magia, dove ti aspetteresti di veder apparire da un momento all’altro Biancaneve con la mela in mano, o un unicorno intento a brucare le rose.

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