Читаем La velocità del buio полностью

È difficile guidare bene col caldo che fa e con la musica sbagliata nella mente. La luce rimbalza dal parabrezza, dalle guarnizioni di metallo, dai parafanghi: ci sono troppi bagliori lampeggianti. Quando arrivo a casa la testa mi fa più male che mai e tremo dal nervosismo. In camera da letto chiudo la porta e le finestre e tolgo i cuscini dal letto. Poi mi corico, mi ammucchio sopra i cuscini e spengo la luce.

Anche questa è una cosa che non ho mai detto alla dottoressa Fornum: lei scriverebbe chissà quante annotazioni sul fatto, io lo so. Rimango sdraiato nel buio, la pressione leggera e soffice pian piano calma la mia tensione e la musica sbagliata che ho nella testa si acquieta. Mi sembra di galleggiare in un silenzio morbido e buio…

Alla fine sono pronto ad avere di nuovo pensieri e sentimenti. Sono triste; e non ho il diritto di esserlo. Mi ripeto tutto ciò che mi direbbe la dottoressa Fornum. Sono in buona salute, ho un lavoro che mi frutta una buona paga, ho un posto dove vivere, abiti e cibo. Ho un raro permesso per possedere un'automobile privata, così che non sono obbligato a viaggiare con qualcun altro o a prendere i mezzi pubblici affollati e rumorosi. Sono fortunato.

Eppure continuo a essere triste. Mi sforzo come posso, ma non è mai abbastanza. Porto gli stessi vestiti degli altri, dico le stesse cose nelle stesse occasioni: buon giorno, ciao, come stai, sto bene, buona notte, per favore, grazie, prego. Rispetto il codice della strada, obbedisco alle regole. Nel mio appartamento ci sono mobili comuni, e la mia musica non tanto comune la suono piano o uso gli auricolari. Ma non è abbastanza. Per quanto mi sforzi, la gente normale continua a volere che cambi, che diventi come loro.

Credevo di essere al sicuro vivendo da solo, vivendo come tutti gli altri. E invece non lo sono.

Sotto i cuscini sto ricominciando a tremare. Vedo di nuovo le etichette che mi porto addosso, le etichette che hanno affollato la mia cartella da quando ero bambino: diagnosi primaria, autismo; deficienze nell'integrazione sensoriale; deficienze nei processi auditivi; deficienze nei processi visivi; mancanza di sensibilità tattile.

Uno del nostro gruppo una volta disse che tutti i bambini nascono autistici, e noi ridemmo nervosamente. Non si poteva negarlo, ma era pericoloso dirlo.

Un bambino neurologicamente normale impiega anni per imparare a integrare l'insieme degli stimoli forniti dai sensi in un concetto coerente del mondo. Io affrontai quel compito esattamente come ogni altro bambino, solo che a me ci volle molto di più… e posso ammettere che l'organizzazione dei dati sensoriali per me non è un processo normale nemmeno oggi. Dapprima venni colpito da un autentico bombardamento di stimoli sensoriali scatenati e promiscui, quindi mi proteggevo da un sovraccarico di sensazioni mediante il sonno e la disattenzione.

Leggendo i testi voi potreste pensare che solo i bambini handicappati neurologicamente si comportano così, invece tutti i bambini gestiscono la loro esposizione agli stimoli chiudendo gli occhi, distogliendo lo sguardo o semplicemente addormentandosi quando il mondo comincia a sopraffarli. Col tempo imparano a organizzare un blocco di dati e poi un altro, imparano che certi schemi di eccitazione retinica segnalano determinati eventi nel mondo visibile, che certi schemi di eccitazione auditiva segnalano una voce umana… e poi quali cose dice questa voce.

Per me, per un individuo autistico, questo processo impiega un tempo assai maggiore. I miei genitori me lo spiegarono quando fui cresciuto abbastanza da capire: per qualche ragione i miei nervi infantili avevano bisogno che uno stimolo persistesse molto a lungo prima che io potessi interpretarlo. Sia io che loro fummo abbastanza fortunati per il fatto che erano state elaborate tecniche adatte a procurare ai miei neuroni segnali della durata adatta. Invece di essere biasimato per la mia "mancanza di attenzione" (questo era l'atteggiamento più comune), mi vennero forniti stimoli che ero "capace" d'interpretare.

Ricordo il tempo (prima che fossi sottoposto al programma d'insegnamento primario di apprendimento del linguaggio con l'assistenza del computer) in cui i suoni che uscivano dalla bocca della gente per me erano confusi e incomprensibili come e più del muggito di una mucca. Potevo distinguere pochissime consonanti, perché non duravano abbastanza a lungo. La terapia mi fu di aiuto: il computer allungava i suoni finché fossi in grado di udirli, e pian piano il mio cervello imparò a captare anche segnali più brevi. Non tutti, però. Anche oggi, se una persona parla molto velocemente, io non riesco a capirla per quanto mi concentri.

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