Le parve molto. Raffiche furibonde colpivano la IceRover, scuotendo il perspex come se volessero riportarla indietro, verso il mare.
«È il vento catabatico» gridò l'autista. «Deve abituarcisi!» Le spiegò che in quella zona spirava un costante vento di terra e che il termine catabatico, dal greco, significava "discendente". Quel vento perenne era causato da pesanti correnti fredde che "fluivano" giù dalla parete del ghiacciaio come un fiume impetuoso. «Questo è l'unico posto sulla terra dove l'inferno congela!» commentò con una risata.
Parecchi minuti dopo, Rachel cominciò a intravedere una forma indistinta in lontananza, il profilo di un'enorme cupola bianca che emergeva dal ghiaccio. Si fregò gli occhi. "Cosa diavolo…?"
«Qui sono alti gli eschimesi, non è vero?» scherzò divertito l'autista.
Rachel cercò di dare un senso a quella struttura. Sembrava l'astrodromo di Houston in scala ridotta.
«La NASA l'ha eretto dieci giorni fa. Plexipolisorbato multistadio. Si gonfiano le varie parti, si collegano insieme e si ancora il tutto al ghiaccio con picchetti e cavi. Ha l'aspetto di un tendone, ma in realtà è il prototipo NASA di un habitat mobile che speriamo di usare un giorno su Marte. Lo chiamiamo "habisfera".»
«Habisfera?»
«Già. Ha capito? Perché è una mezza sfera abitabile.»
Rachel sorrise fissando lo strano edificio sempre più vicino. «E visto che la NASA non è ancora arrivata su Marte, voi avete deciso di usarla qui per farci una bella dormita?»
L'uomo scoppiò a ridere. «Per la verità avrei preferito Tahiti, ma il destino ha deciso altrimenti.»
Rachel guardò titubante l'involucro bianchissimo che si stagliava spettrale contro il cielo scuro. La IceRover si avvicinò fino a fermarsi davanti a una porticina che si stava aprendo su un lato della cupola. La luce dall'interno illuminò la neve. Uscì qualcuno, una specie di gigante che indossava un maglione nero di pile che lo infagottava facendolo apparire ancora più. massiccio, una sorta di orso. Si avvicinò alla IceRover.
Rachel comprese subito di chi si trattava: Lawrence Ekstrom, il direttore della NASA.
L'autista le rivolse un sorriso rassicurante. «Non si faccia ingannare dalle dimensioni. Quel tizio è un gattino.»
"Più una tigre" pensò Rachel, sapendo che passava per uno pronto a staccare la testa a morsi a chi si frapponesse tra lui e i suoi obiettivi.
Rachel scese dalla IceRover e fu quasi atterrata dal vento. Si strinse il parka intorno al corpo incamminandosi verso la cupola.
Il direttore della NASA le andò incontro porgendole un'enorme zampa guantata. «Signora Sexton. Grazie di essere venuta.»
Rachel annuì incerta e gridò per sovrastare il rumore del vento impetuoso: «Francamente, signore, non ho avuto molta scelta».
A mille metri sul ghiacciaio, Delta-Uno, con il binocolo a infrarossi, vide il direttore della NASA fare strada a Rachel nella cupola.
19
Lawrence Ekstrom era un colosso burbero e rude come un iroso dio norvegese. Aveva capelli biondi a spazzola, fronte corrugata, naso a patata solcato da capillari. In quel momento, i suoi occhi di pietra recavano traccia di innumerevoli notti insonni. Potente stratega dell'aerospazio e consigliere operativo del Pentagono prima di essere chiamato alla NASA, era noto per l'arroganza oltre che per l'indiscutibile dedizione alle missioni intraprese.
Mentre lo seguiva nell'habisfera, Rachel Sexton si trovò a procedere in uno strano e traslucido dedalo di corridoi. Quella struttura labirintica sembrava essere stata creata appendendo fogli di plastica opaca a cavi tesi. Il pavimento non esisteva: un lastrone di ghiaccio solido, con passatoie di gomma antiscivolo. Oltrepassarono un rudimentale soggiorno fiancheggiato da brande e gabinetti chimici.
Per fortuna, l'aria nell'habisfera era tiepida anche se resa pesante da quella mescolanza di odori indistinti che accompagna gli esseri umani negli ambienti ristretti. Un generatore ronzava da qualche parte, evidentemente la fonte energetica che alimentava le lampadine nude appese ai cavi.
«Signora Sexton» grugnì Ekstrom, guidandola verso un'ignota destinazione «lasci che le parli subito in tutta franchezza.» Il tono lasciava intendere che era tutt'altro che compiaciuto della presenza di Rachel. «Lei è qui perché il
Rachel lo guardò esterrefatta. "Ho percorso cinquemila chilometri per trovare un'accoglienza del genere?" Quel tipo non era certo il re del bon ton. «Con tutto il rispetto» contrattaccò lei «anch'io sono qui per ordine del presidente. Non mi è stato detto a che scopo. Ho fatto questo viaggio perché mi fido di lui.»
«Bene. Allora le parlerò in tutta sincerità.»
«Ha già iniziato, direi.»